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romanino e il buon samaritano – il ritorno di un quadro scomparso

mita - centro culturale
via privata de vitalis 2/bis

30.05 - 14.07.2024

L’opera ROMANINO E IL BUON SAMARITANO, è la nuova acquisizione di Fondazione Tassara.

L’obiettivo dell’acquisizione è di farla riscoprire – riportandola “a casa” dopo due secoli – e metterla a disposizione di Brescia, perseguendo una delle missioni principali della Fondazione: essere al servizio e parte di quel ricchissimo patrimonio civico della città e della provincia con un atto di generosità attraverso l’arte, nello spirito di Romain Zaleski che volle e sostiene la Fondazione.

 

 

Entrammo in contatto con questo Romanino nei primi mesi del 2022 e al primo sguardo ci rendemmo conto della profondità espressive di quel “Buon Samaritano”, della sua determinata pietas nel soccorso, della grande dignità mostrata nel prendersi cura di uno sconosciuto, della poderosa potenza dell’amore per il prossimo che proietta nel nostro animo: uno sguardo indiscreto, quello offerto dal quadro, su un atto, il suo, che, se a Brescia, sarebbe rimasto certamente riservato nella tradizione della mediocritas del nostro Genius loci.

Il dipinto, di straordinaria fattura, era nella celebre collezione bresciana Fenaroli Maffei probabilmente fino alla seconda metà del XIX secolo per poi essere acquisito nella collezione romana di Pietro Toesca, il grande medioevalista allievo di Venturi, amico di Berenson, maestro tra gli altri di Argan, Longhi e Zeri. Da lì uscì molto raramente, una volta in occasione della mostra sul Romanino a Brescia nel 1965 e in quella occasione fu studiato tra gli altri da Gaetano Panazza e Camillo Boselli. Una seconda volta fu esposto al Castello del Buonconsiglio a Trento nel 2006. Ora torna a casa e questo Romanino ha per noi molti significati.

Certamente il volto del Samaritano con il suo trasmettere il potente messaggio di amore, di compassione, di pietas non può non colpire nel profondo chi della filantropia, della cura e della assistenza verso gli altri ha fatto una parte silenziosa, spesso privata, della propria vita e di quella espressione e di quei gesti si trova individualmente partecipe. Ma la parabola, e il Romanino fedelmente riporta, dice anche altro oltre alla vocazione individuale, dando aggiuntivo significato alla nostra acquisizione: dove il Samaritano affida il ferito all’albergatore, pagandolo e pregando di curarlo essa ci spiega che l’atto d’amore senza nuna “istituzione” strutturata, l’albergo, e senza una dazione di denaro per il suo sostegno non troverebbe completezza. Avrebbe potuto la parabola fermarsi un attimo prima ma invece sottolinea la necessità che quell’atto d’amore sia completato da una cosa molto simile se non perfettamente coincidente con quelle associazioni di volontariato, quelle Fondazioni filantropiche, quegli enti caritatevoli che agiscono, raccolgono o mettono a disposizioni risorse per il prossimo senza fare distinguo costituendo lo straordinario tessuto delle virtù civiche solidaristiche del bresciano.

Infine, terza ragione della acquisizione, riportarlo “a casa” dopo quasi due secoli, farlo riscoprire, metterlo a disposizione di Brescia, significa far comprendere che Fondazione Tassara vuole essere al servizio e parte di quel ricchissimo patrimonio civico della città e della provincia: è un atto di generosità attraverso l’arte, nello spirito di Romain Zaleski che volle e sostiene la Fondazione. È la dimostrazione del linguaggio universale del Romanino al punto che quel “Buon Samaritano” può essere tranquillamente considerato il simbolo delle secolari virtù civiche del nostro territorio: quelle interpretate da prestigiose istituzioni bresciana, quelle che ognuno di noi silenziosamente coltiva.

Flavio Pasotti

Presidente Fondazione Tassara

 

Questa parabola evangelica è rappresentata piuttosto raramente nell’arte figurativa italiana ed europea in genere.

Al centro del quadro possiamo riconoscere il fatto decisivo, il cuore del racconto: a terra ci appare il viandante giudeo, spogliato dai suoi abiti e ferito, sofferente e incapace di reagire. Su di lui si china il “buon Samaritano”, personaggio benevolo e attento, per pulire e disinfettare la ferita; una ferita al costato, che potrebbe implicare un riferimento alla stessa ferita subita da Cristo in croce. Un altro forte riferimento cristologico è anche in grande tronco scuro, che simboleggia la croce.

Costruito così lo spazio centrale su una struttura così Piramidale, Girolamo Romanino ambienta gli altri passaggi del racconto a destra e a sinistra, dividendo con precisione antefatti e conseguenze. La scelta della raffigurazione di un episodio così particolare non può essere casuale e non è difficile ipotizzare che possa essere messa in relazione a un atto di beneficienza. Che si tratti di una committenza lo conferma il formato, adatto a una dimora o a una sede di confraternita, e altresì i particolari del quadro: il viso ritrattistico del “buon Samaritano” e l’elemento del tutto nuovo rispetto al racconto della parabola rappresentato dalla spada al fianco. Immaginare che il committente fosse uno straniero a Brescia nel primo Cinquecento non è del tutto improbabile.

Questo dipinto così anomalo non sembra avere derivazioni, copie o ulteriori interpretazioni oggi note. Ne esiste soltanto una incisione di Georg Pencz, datata 1543 ed eseguita dunque probabilmente durante o subito dopo il secondo viaggio in Italia del pittore e incisore tedesco.

Giovanni Valagussa

Curatore Collezione Zaleski

 

La vita tra ruolo e scoperta di opportunità. Soprattutto in gruppi sociali organizzati le persone si ritagliano un ruolo o se lo sentono affidato. Attuandolo si vive la propria responsabilità sociale, che nello stesso tempo libera dal senso di onnipotenza e rispetta il ruolo e la responsabilità di altri. In tal modo si evitano prevaricazioni e si permette a ognuno di sentirsi valorizzato. Appare però il rischio di identificare la persona con il ruolo con la conseguenza di bloccare la possibilità che la medesima persona giunga a sviluppare potenzialità che vanno oltre il ruolo.

Questa notazione può essere vista sullo sfondo del brano di Luca 10,25-37. Da esso si può scoprire che la volontà di Dio non si scopre nell’attuazione rigida del ruolo, ma nelle circostanze che provocano apertura: lo si coglie dal passaggio che si nota dalla domanda dello scriba (“e chi è il mio prossimo?”) alla conclusione della parabola (“il prossimo è colui che ha avuto compassione”), che è tipica solo dell’evangelista Luca. La parabola evidenzia un duplice scopo: mostrare che il ruolo non giustifica l’indifferenza; rompere l’ovvietà del modo di pensare l’amore del prossimo.

Vuole quindi suggerire che prossimo si diventa con una decisione che nasce dal lasciarsi provocare da una situazione di bisogno. Si tratta di un processo nel quale si rimodella il proprio comportamento, che a sua volta rimodella la persona. In effetti, la questione dibattuta riguardava l’identificazione del prossimo. La risposta cui la parabola conduce è che questo non va ricercato all’esterno di sé, ma in se stessi, una volta che ci si sia lasciati provocare dalla situazione che si è presentata. Ma perché il sacerdote e il levita non diventano prossimo?

La risposta si può desumere dalla comprensione di sé che l’uno e l’altro potrebbero aver avuto: quella legata al ruolo. Non era compito né del sacerdote né del levita farsi carico delle miserie sociali: la loro funzione era cultuale, e per il sacerdote anche legale. In essi la funzione prevale sulla manifestazione della volontà di Dio che appare nella situazione di bisogno. In tal modo essi attuano la volontà di Dio rispettando il proprio ruolo. Nulla da eccepire: a ciascuno il suo compito!

Ma basta questo per compiere la volontà di Dio? Gesù conduce oltre: la volontà di Dio non la si conosce in concreto una volta per tutte; si impara a conoscerla dalle circostanze e lasciandosi indicare lo stile fondamentale dallo stesso Gesù. Sicché non basta più la legge antica per vivere: occorre fare proprio il modo di essere di Gesù, ma nella forma concreta che la vita presenta. Il samaritano vede quindi in modo diverso; vuol dire che non vede solo con gli occhi, ma con il cuore – le viscere, fa intendere il verbo usato nel v. 33 – e il cuore non resta indifferente di fronte alle persone ferite, anche se quel che si fa non è inscritto nel ruolo.

Monsignor Giacomo Canobbio

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